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Lo statuto della donna musulmana, problematica e progetto

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Nadia Yassine 

Constatazioni

L’Islam ha onorato la donna, l’Islam ha dato dei diritti alle donne, l’Islam ha tutelato la donna; è il solito ritornello che si sente dire quando ci s’interroga sulla condizione delle donne nel mondo musulmano.

Non abbiamo il tempo per entrare nel dettaglio ed elencare le differenze effettive che potrebbero esistere tra una donna e l’altra nella realtà di un mondo così vasto, stratificato e diverso come quello musulmano. Di certo la vita quotidiana di una donna Tuareg non assomiglia per niente a quella di una donna dell’alta borghesia libanese, se non fosse per il fatto che condividono la stessa fede.

Nonostante le enormi differenze tra i vari contesti, esiste sicuramente una specificità nella condizione delle donne nel mondo Islamico.

Essa si traduce nelle tradizioni, nelle mentalità, nei programmi scolastici, e ancor peggio nelle leggi e nelle statistiche, è ora di ammetterlo, dando ragione a molti discorsi che i musulmani rifiutano e rinnegano fino ad oggi.

Sì! la donna musulmana è oppressa in nome dell’Islam; sì! la donna è schiavizzata in nome dell’Islam; si! la donna è emarginata in nome dell’Islam; sì! la donna subisce la mutilazione in nome dell’Islam.

Problematica

Emerge con forza una domanda centrale, sapere se sono le fonti originali, il Corano e la Sunna, ad affermare l’inferiorità delle donne, o meglio è la nostra lontananza da esse a determinare che questa evidente inferiorità venga messa sul conto dell’Islam.

Non appena ci liberiamo da alcuni vincoli ideologici, prodotti durante i secoli di giurisprudenza per risalire direttamente alle nostre radici più profonde, ossia agli insegnamenti del Profeta dell’Islam, pace su di lui, noteremo senza dubbio che la dinamica inerente al suo insegnamento è stata poco a poco occultata e ci si è allontanati sempre più dallo spirito dei suoi insegnamenti. Ciò è dovuto a molti fattori, tra cui certamente i seguenti che schematizziamo come segue:

1- La rottura politica avutasi col “golpe della dinastia degli omayyadi”, ha inibito la dinamica di liberazione avviata dal Messaggero, pace su di lui.

2- Gli scismi, prodotti dalla rottura politica, indebolirono ancor più questa dinamica determinando una forte regressione sullo statuto appena conquistato dalla donna.

3- L’Ijtihad, cioè lo sforzo intellettuale, continuo e critico attraverso cui si ricerca la soluzione più adeguata per mantenere vivo lo spirito della Sharia, si è ripiegato poco a poco fino a indebolirsi del tutto e scomparire lasciando il posto al taqlid (l’imitazione pedissequa) e alla lettura letteralista e conformista. Dalla luce dell’ “Ijtihad”, si è passati a un’interminabile buio di sclerosi intellettuale di cui la donna ha pagato, e paga tuttora, a caro prezzo le conseguenze. Invece di godere dei diritti attribuitele dai testi originali, essa si ritrova prigioniera di una giurisprudenza basata su “sadd ad-darai3” (che vuol dire letteralmente “tappare i buchi”);

4- La rinascita di alcune pratiche tribali giustificate, consapevolmente o inconsapevolmente, da una certa giurisprudenza che le ha offerto una certa legittimazione;

5- L’ampia diffusione dell’Islam nei primi secoli provocò due importanti fenomeni tra loro connessi, ritardò il movimento di abolizione della schiavitù iniziato dal Corano; e ciò accentuò la tendenza a isolare le donne musulmane, per sottolinearne la differenza con le donne schiave e di bassa condizione sociale. Lo scopo, dunque, era quello d’isolare la donna per proteggerla.

Il Progetto

La realtà è sicuramente molto più complessa di come l’abbiamo rappresentata, come pure le soluzioni che possiamo proporre per tornare alle radici più profonde in modo appropriato. Il fatto è che lo sforzo deve essere volto in tre direzioni:

  • Il ritorno alle fonti effettuato col cuore. La spiritualità e la conoscenza intuitiva sono fondamentali per un ritorno ai testi originali, che richiamano essenzialmente al senso spirituale e alla pratica di questa spiritualità.
  • Il ritorno alle fonti attraverso l’acquisizione di strumenti teologici, ossia far rivivere l’Ijtihad,  che io definisco “sforzo di riflessione esaustiva”, e fare in modo che vi partecipino più donne. E’ necessario fare dello sforzo di riflessione uno sforzo collettivo, un lavoro di gruppo, perché per un mondo così complesso le soluzioni da trovare non possono essere frutto del lavoro di una sola persona.
  • Il ritorno alle fonti attraverso il superamento del nostro retaggio politico. Lo sforzo interpretativo può avvenire solo in società realmente democratizzate ossia sgombere da tutti i poteri coercitivi che sono stati, poi, all’origine stessa dell’alienazione delle donne e degli uomini di questa società.

Pertanto ci aspetta un grosso lavoro di educazione corredato a un lavoro a livello politico. Tuttavia bisogna puntare sul lungo termine e soprattutto fare attenzione a non cadere nella linea classica del femminismo occidentale volutamente materialista: non si tratta di prendersi una rivincita sugli uomini, bensì d’iscriversi di nuovo nel quadro di una complementarietà dove la donna e l’uomo sono partner a pari livello, e nella prospettiva di una società più equa e dunque più umana e più spirituale: una società di senso e di fiducia.

Promuovere un femminismo all’occidentale significa sbagliare la lettura della storia e smarrire i punti di riferimento. Ciò tornerebbe soprattutto a forzare il corso di una storia secolare, a creare ulteriori resistenze e a esacerbare ancor più i contrasti.

Sapere ciò che i nostri testi sacri hanno prescritto veramente in materia di diritti delle donne è un dovere; ma volerli mettere in pratica subito senza gradualità equivale a un suicidio sociale oltre che a una sistematica condanna.

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